Antonio Calderara

Dopo i primi anni di vita passati nella provincia milanese, nel 1915 si trasferisce con la famiglia a Milano per stare vicino al padre appena chiamato alle armi. In quello stesso anno esegue la sua prima pittura: un olio raffigurante la chiesa di Vacciago, un piccolo paese sulla sponda orientale del lago d’Orta, luogo di villeggiatura dove vivono i suoi nonni. Proprio a Vacciago, nel 1923 all’interno dell’albergo Maulini, viene inaugurata la sua prima mostra personale dove presenta paesaggi e ritratti mostrando una maturità insolita per un ventenne. Con queste prime opere attesta di conoscere e misurarsi con linguaggi che in quegli anni riflettevano sull’importante tradizione del romanticismo lombardo, il cui epicentro era proprio la Milano dove viveva e studiava ingegneria al Politecnico, che frequenterà fino al 1925 quando, con determinazione, decide di dedicarsi unicamente alla pittura “vincendo la resistenza della madre” preoccupata per una scelta di vita così incerta. La rigorosa attitudine ingegneristica emerge nelle prime esperienze pittoriche dove i soggetti sono perlopiù scorci urbani caratterizzati dalla potente presenza di architetture industriali, “architetture efficienti” che gli consentono di strutturare le composizioni attraverso una ricerca di volumi nitidi ricavati dallo studio di luci e ombre. Contro ogni suo desiderio, nel 1926, presta la leva militare a Roma tra interruzioni dovute a problemi di salute che lo accompagneranno per tutta la vita. Tornato a Milano, nel 1927, dà finalmente inizio alla sua vita da pittore in uno studio ricavato all’interno dell’abitazione del padre nel centro città; prende così avvio la sua carriera espositiva e nel maggio del 1929 è presente alla mostra Il Naviglio di Milano nel Palazzo della Permanente. Per l’occasione, dove per la prima volta vede le sue opere “allineate vicino alle pitture di altri artisti”, espone il quadro via Vallone e via Olocati. Nel frattempo la famiglia, per difficoltà finanziarie, torna a vivere a Vacciago, mentre lui, spinto da un potente desiderio di libertà, decide di rimanere a Milano tra sforzi e sacrifici.

L’inizio degli anni trenta è un periodo di novità e cambiamenti sotto diversi punti di vista: nel 1932 incontra Carmela, la donna che diverrà sua moglie e madre della figlia Gabriella; nel 1933 e nel 1934 gli sono dedicate due mostre personali alla Galleria Vita Nuova e alla Galleria Bolaffi di Milano (dove, con il quadro Lago d’Orta ottiene il premio Saverio Fumagalli per il paesaggio), quando decide di trasferirsi a Vacciago. Negli anni successivi vive in diverse località sempre affacciate sul lago e lavora inizialmente con un industriale che gli fornisce denaro in cambio di quadri, fino a poter gestire liberamente il suo mestiere e guadagnarsi da vivere partecipando a esposizioni collettive nella zona. Nel 1936 muore improvvisamente il padre e con premura e generosità ad aiutare Antonio è il fratello con cui vive a Vacciago nella casa di famiglia. Di questi anni ricorda una solitudine desiderata al fine di comprendere il significato più profondo che ricercava nella pittura. Inizia per lui a prospettarsi un destino che accompagna spesso pittori importanti che decidono di restare, per scelta o per esigenza, in provincia, lontano da circuiti ufficiali, da collezionisti e dal pubblico. Calderara infatti fu sostanzialmente estraneo a quelle formazioni di artisti che conosceva e aveva frequentato a Milano, come i chiaristi De Amicis, De Rocchi e Lilloni, il gruppo Novecento o le proposte concretiste che iniziavano ad essere promosse alla Galleria Il Milione. Fu estraneo a suo modo, più nei rapporti che negli intenti, ricercando una maniera personale rispetto alle ricerche “ufficiali”, o etichettate come tali; riesce a esprimersi con un linguaggio che raggiunge le medesime valenze, affrontando con “serena umiltà i sempre nuovi problemi”, da convinto autodidatta. La sua produzione degli anni trenta è perlopiù caratterizzata da una ricerca sulla materia e sulla massa volumetrica della composizione, mentre con l’aprirsi del nuovo decennio i profili si fanno più levigati e lo studio si concentra sempre di più sulla luce, una luce zenitale che dirada le forme, memore di quell’eterno mezzogiorno appreso osservando i maestri del Quattrocento, in sintonia con le ricerche di molti artisti dell’epoca che, diversamente da lui, prediligevano tematiche mitologiche piuttosto che lo sguardo diretto alla realtà. Cambiano anche i formati che diventano più piccoli mentre i soggetti rimangono quelli da sempre privilegiati: soggetti reali come il paesaggio del lago, la natura morta e la figura. Lontano dai protagonismi di Milano, stabile a Vacciago, Calderara trova un interlocutore privilegiato che sa comprendere il suo lavoro: è Raffaello Giolli, protagonista intellettuale del rinnovamento critico incentrato sulle più aggiornate e moderne correnti europee che, dopo un confino politico per antifascismo, dal 1941 si stabilisce sul lago d’Orta in una casa di famiglia. Come per i grandi maestri della pittura italiana, la monografia che Giolli dedica all’amico, in occasione di una mostra personale presso la Galleria d’Arte Salimbeni a Domodossola nel 1944, è intitolata “Antonio da Vaciago” e riflette, quasi profeticamente, sul futuro sviluppo della pittura di Calderara che “raccorcia continuamente il suo fuoco visivo” per arrivare a quel bianco “che aveva, qui, ossessionato il pittore fra tanti pretesti di nevicate” e in cui “ogni colore doveva convergere sino a distruggervisi”. Il 1944 è però anche segnato da un profondo lutto che colpisce l’artista: la morte della giovane figlia. La pittura è l’unico antidoto che riesce a colmare il vuoto causato dalla disperazione di quegli anni terribili: fino al 1957, infatti, l’immagine di Gabriella continuerà a rivivere in dipinti mutati della figura della moglie ritratta in sembianze giovanili. Sempre nel 1944 inizia il suo rapporto privilegiato, che andrà consolidandosi nel tempo, con la Galleria Del Grattacielo di Legnano dove partecipa a una collettiva assieme a Luisa de Romans e Bruno Motta, curata da Beniamino Joppolo. Nel 1945, con la moglie, torna a vivere a Milano dove nel 1947 è inaugurata una sua mostra personale alla Galleria della Spiga curata da Somarè, cui seguiranno numerose personali e collettive in differenti istituzioni in città e non solo. Inizia un periodo di importanti conferme: escono le monografie di Giorgio Nicodemi (1947) e Beniamino Joppolo (1948), nel marzo di quest’ultimo anno partecipa alla Rassegna Nazionale di Arti Figurative di Roma e, dopo pochi mesi, due suoi oli (La mamma cuce e figura) sono esposti alla XXIV Biennale di Venezia che in quell’anno ospita anche due disegni e un olio di Mondrian: figura che, da lì a qualche anno, gli determinerà “l’apertura a più rigorosa meditazione” per comprendere “un altro aspetto della realtà”.

Nel 1950 un infarto lo costringe a un periodo di inattività, mentre nel mese di marzo, l’Istituto Italiano di Cultura a Lisbona inaugura una sua mostra personale. Nel 1953, nel pieno di un’attività espositiva che lo vede presente in tutto il territorio nazionale e non solo, un ennesimo lutto colpisce la famiglia: la morte del fratello. Il conforto gli arriva ancora una volta dalla pittura e dalla scoperta di una stringente affinità proprio con l’opera di Mondrian a partire, come dice lui, dal 1954. Una sorte favorevole sostiene questo suo coinvolgimento col pittore olandese che rincontra nel 1956 alla XXVIII Biennale di Venezia, dove a Mondrian è dedicata un’ampia retrospettiva che anticipa le due grandi mostre di Roma e Milano. Per l’occasione veneziana Calderara espone tre disegni (Mia figlia, Mia madre, Il corsetto), tecnica a cui darà sempre più importanza anche dopo un primo riconoscimento critico avvenuto con la pubblicazione di una monografia (1955) interamente dedicata alle opere realizzate a matita a cura di Agnoldomenico Pica, cui seguirà una seconda dello stesso autore pubblicata per le Edizioni del Milione nel 1958. Queste “pitture a matita”, come le definiva il critico, andavano ad accompagnare un’indagine sulla luce che progressivamente dava nuovi risultati in pittura: attraverso finissimi passaggi, velature di colore, la sua ricerca arriva a completarsi sempre più in superficie, con l’abbandono graduale della costruzione prospettica, per trovare la spazialità solamente nelle relazioni tonali. Il suo mancato allineamento alle poetiche del “disordine materico”, informali o tachiste, sono ovviate dal folgorante incontro con il rigore di Mondrian, che, tuttavia, non lo porta ad abbandonare di getto la pittura di figura, ma a riflettere sulla proiezione luminosa della materia, in pitture, come scrive lui “al limite del figurativo, quelle pitture chiarissime, nelle quali ogni rappresentazione si svolge sul piano, voglio dire sul piano nel senso che la terza dimensione prospettica non ha più interesse per me”. È in arrivo un totale ripensamento del suo lavoro che gradualmente elimina il dato naturale per approdare a “quel punto limite” oltre il quale deve per forza accadere qualcosa. Le sue idee figurative subiscono un’originale trasformazione linguistica pur restando coerenti ai suoi fondamentali presupposti artistici: nell’apparente rottura esiste una continuità profonda, confluiscono i risultati del lungo operato e il tema unificante della luce (una “quinta dimensione del tutto inedita” come la chiama Fagiolo in “Rapporto 60”) prende sempre più spazio, divenendo ora, dall’interno, sorgente primaria rispetto al dato naturale, abolito anche nei titoli delle opere che, a partire dagli anni sessanta diventano: Misure di quadrato, Spazi-luce, Tensioni verticali. Questo cambiamento lo porterà letteralmente ad azzerare il linguaggio espressivo fino a prediligere la monocromia e l’aniconicità, protagoniste di un ininterrotto susseguirsi di mostre che designano l’autore come modello capace di farsi interprete di quel “punto a capo” che caratterizza l’intera scena artistica europea. Grazie alla mediazione dell’amico artista Almir Mavignier, la sua nuova produzione, ora di respiro internazionale, trova terreno fertile in area tedesca: nella primavera del 1960 è infatti presente a Saulgau alla mostra Konkrete Malerei, in giugno a Zurigo espone alla mostra Konkrete Kunst. 50 Jahre Entwicklung (organizzata da Max Bill per riunire i maggiori esponenti storici e contemporanei dell’astrattismo geometrico) e dopo poco a Ulm inaugura una sua personale allo Studio f. dove espone oli e acquerelli, tecnica per lui congeniale, essendo un mezzo più “rarefatto dell’olio” che, soprattutto negli anni settanta, gli permetterà di completare la sua estrema “necessità di andare oltre la luce”, come scrive in una lettera del 1974 a Carlo Belloli. In Italia l’autore lamenta una larga incomprensione nei confronti della sua opera e nell’autobiografia ricorda questi anni come un periodo di durissime umiliazioni. È necessario tuttavia riconoscere alcuni rilevanti episodi, anche in territorio nazionale, dove la sua opera viene fin da subito accolta con audacia: la prima esposizione personale organizzata dal neonato Gruppo enne di Padova è dedicata, nel mese di dicembre del 1960, proprio a Calderara e lo scritto che accompagna il cartoncino di invito alla mostra è a firma di Carlo Belloli. Si inaugura così un interesse critico che si intensifica nel corso degli anni sessanta: scrivono di lui Apollonio, Argan, Dorfles, Fagiolo, Kaisserlian, Murilo Mendes, L. V. Masini, Valsecchi, Giulia Veronesi, Zavattini, Umberto Eco (che gli dedica una selezione di scritti pitagorici per un’edizione pubblicata da Scheiwiller nel 1963 dal titolo “Misura di luce” con partiture del compositore Bruno Canino), oltre agli artisti Hsiao Chin e Jesús Rafael Soto. La presenza di sue opere in importanti mostre allestite in istituzioni pubbliche e private, italiane e internazionali, si moltiplica in maniera esponenziale: Anno 62 alla Galerie ’t Venster di Rotterdam (1962); Panorama van de nieuwe tendenzen ad Amsterdam (1963); XV Premio di Avezzano. Strutture di Visione (1964); IX Quadriennale di Roma (1965); Bianco + Bianco alla Galleria L’Obelisco (1966) seguita dalla mostra Weiss auf Weiss a cura di Udo Kultermann alla Kunsthalle di Berna, documenta 4 a Kassel (1968) oltre a esperienze fuori Europa tra cui mostre alla Kentucky Art Gallery, al The National Museum of Modern Art di Tokyo, all’Expo del 1967 a Montréal, senza dimenticare sue mostre personali allestite al Museu de Arte Moderna di Rio de Janeiro (1965), allo Stedelijk Museum di Schiedam (1968) e al Kunstmuseum di Lucerna (1969). In un periodo costellato da numerose manifestazioni incentrate sui temi dello spazio, del tempo, del movimento e della luce, le sue ricerche in quest’ultimo ambito lo fanno approdare all’interno di circuiti sperimentali di primissimo livello come La galleria Signals London, gestita da Paul Keeler e dall’artista David Medalla, per la collettiva Sounding Two, nell’estate del 1965, e per una personale, nell’estate dell’anno seguente, come approfondimento promosso dalla galleria e significativamente intitolato Towards the invisible. In questo prolifico contesto diviene anche promotore di cultura: a Milano, il 21 agosto 1961 fonda il “Gruppo Punto” assieme a Dadamaino, Nanda Vigo, Kengiro Azuma, Hsiao Chin e Li Yuan-Chia. Un libero incontro di artisti caratterizzato da una ricerca comune le cui linee guida, riportate anche sul catalogo della prima mostra alla Galleria Cadario di Milano nel 1962, erano: “Capire la condizione di finito nell’infinito è intuire nella realtà del pensiero la verità di essere: nella purezza dell’idea la ragione di operare”. Tra il 1961 e il 1966 il gruppo espone in importanti luoghi anche di livello internazionale come il Palacio de la Virreina a Barcellona e Museo d’Arte di Madrid (1962), il National Taiwan Arts Hall di Taipei (1963) e Galerie Suzanne Bollag di Zurigo (1965). Del nucleo originario, Calderara è tra i membri più attivi e partecipa a quasi tutte le manifestazioni dal 1962 al 1966, anno in cui espone autonomamente a Napoli assieme a un altro gruppo, il romano Gruppo 1 (con Carrino, Frascà e Uncini), in una mostra presentata da Achille Bonito Oliva e Filiberto Menna (poi seguita da una pubblicazione di Argan), a rimarcare come la sua indipendenza fosse allo stesso tempo apertura e identificazione a comuni realtà.

A partire dalla fine del decennio, dopo il consolidamento di uno specifico linguaggio, il suo superamento si fa ancora più estremo e sperimentale attraverso l’esplorazione di terreni espressivi trasversali, ma intimamente collegati alla sua costante ricerca. Nel 1968 incontra a Milano il compositore elettronico Enore Zaffiri: partecipano entrambi alla mostra “Arte Concettuale” allestita alla Galleria Milano e collaborano a diversi lavori per cercare uno stretto colloquio tra partitura e immagine, spesso tradotta in serigrafia, interpretando attraverso i due media artistici schemi di partenza comuni come nel Progetto Q81 del 1973. Forte di queste sue ultime indagini tra musica e poesia visiva, prende parte a tutte le tappe della mostra itinerante “Konzeptionelle Kunst”, (tra 1967 e 1975), nel 1970 l’artista Vincenzo Agnetti gli dedica un testo nella collana “Ricerca Contemporanea” edita da Scheiwiller, dialoga con le poesie concrete degli artsti Gomringer, Wezel, Gappmayr in specifiche pubblicazioni, fino a concepire, negli ultimi anni di vita, la serie estrema degli Epigrammi: “Un alfabeto che non si legge, un colloquio senza parole”. Nonostante un terzo infarto avvenuto nel 1970, si intensificano e consolidano i rapporti con i più importanti luoghi espositivi europei: mostre personali sono organizzate alla Galleria Anne Marie Verne a Zurigo (1969, 1971, 1973), alla Kozmopolitan Gallery di New York (1970), alla Galleria Denise René di Parigi (1971), al Kunstmuseum di Düsseldorf (1973), alla Marlborough Gallery di Roma (1973), alla Fundación Jesus Soto a Ciudad Bolivar (1974), alla Galerie Gilles Gheerbrant di Montréal (1976), fino al riconoscimento ufficiale: la manifestazione itinerante che dalla Kunstverein di Friburgo nel 1976 arriva allo Stedelijk Museum di Amsterdam nella primavera del 1977. Negli ultimi anni di vita si concretizza la sua volontà di creare una fondazione per ospitare le oltre trecento opere collezionate, perlopiù di amici artisti internazionali che, meglio di qualsiasi parola, esemplificano l’importante livello di relazioni raggiunte negli anni cruciali del suo percorso. L’Europa arriva a Vacciago, dove Antonio Calderara muore il 27 giugno 1978, pochi mesi prima dell’apertura ufficiale della Fondazione.