maggio – giugno 2015
di Alessandra Nappo
La galleria Studio Gariboldi presenta una mostra personale di Luciano Bartolini dedicata ai suoi lavori degli degli anni Settanta, i Kleenex. Questo ciclo di opere, iniziato nel 1973-74, è caratterizzato dalla presenza dei comuni fazzoletti di carta usa e getta kleenex, serialmente disposti e incollati su un semplice fondo costituito da carta da pacchi o carta alimentare sulla quale viene successivamente steso il colore – sempre usato con parsimonia e con lievi variazioni cromatiche.
Una volta applicato il primo strato di colore, poi rafforzato con passaggi successivi, la carta reagisce piegandosi, si sottrae al controllo esercitato dall’artista, lasciando così emergere raggrinzimenti e movimenti accidentali.
Bartolini dà così vita a composizioni astratte, basate sul calibrato accostamento di moduli quadrati che originano patterns geometrici in cui ordine e rigore formale fanno da contrappunto alla fragile consistenza della carta.
La serie dei kleenex testimonia dunque la scelta dell’artista di usare un materiale effimero, delicato, provvisorio, la cui disposizione meticolosa sulla superficie pare tuttavia contraddire quel senso di transitorietà, di precarietà che notoriamente lo caratterizza.
La raffinata eleganza che deriva da tali accostamenti – mai lasciati interamente al caso, bensì frutto di una disciplina intransigente – si genera dall’incontro tra elementi contrastanti: colore e non-colore, calcolo e imprevisto, staticità e movimento (quest’ultimo prodotto dall’andamento irregolare delle pieghe della carta), materiali poveri (il foglio grezzo) e dettagli preziosi (la comparsa dell’oro), pieno e vuoto, orizzontale e verticale. Sono soprattutto il susseguirsi monotono e uniforme dei kleenex sulla carta da pacchi secondo una scansione ritmica e la tecnica del collage a produrre quel felice incontro-scontro che interessa a Bartolini: la trasparenza dei fazzoletti contrapposta all’opacità della carta ruvida sottostante; la leggerezza e volatilità del kleenex opposta alla (apparente) robustezza del suo supporto.
La grammatica visiva di Luciano Bartolini fonde in modo del tutto singolare l’impronta lasciata dai grandi maestri della pittura italiana del Secondo dopoguerra – la sensibilità espressiva di Alberto Burri e la ricerca di Piero Manzoni sembrano essere stati i riferimenti più immediati – con suggestioni provenienti dalle culture orientali, come l’uso dei sottilissimi fazzoletti, diretto rimando ai fogli-preghiera sospesi a dei fili che l’artista ha avuto occasione di vedere nel tempio di Bodhanath in Nepal.
Carte ruvide, increspature, stratificazioni, superfici vibratili: ogni elemento che Bartolini inserisce nelle proprie opere è finalizzato a evocare questa impressione tattile, a enfatizzare la relazione fisica che egli instaura con la materia di cui s’impadronisce. Proprio attraverso la scelta dei materiali – selezionati per la loro apparente banalità e presentati nella loro essenziale nudità –, Bartolini cerca di richiamare ciò che è frammentario, passeggero, “in eterna metamorfosi”, citando l’espressione dello studioso tedesco Helmut Friedel. La superficie di questi lavori, attraversata da rugosità, pieghe e grinze, sembra quasi evocare – non senza suscitare una sorta di inquietante familiarità – un tessuto epiteliale, una sorta di epidermide che cela, al di sotto del proprio strato, vasi sanguigni e linfatici.
Esiste una tattilità dell’occhio? I Kleenex di Bartolini sembrano parlarci di questa possibilità. Sono le qualità tattili di queste strutture minimali e seriali a colpirci in prima istanza, e ci chiedono di essere esplorate con lo sguardo. È la vista a captare le irregolarità, le protuberanze, la plasticità di queste opere che si lasciano, per così dire, toccare con gli occhi.