settembre – ottobre 1999

In punta dei piedi
di Elisabetta Bucciarelli

Alcuni più di altri durante il cammino dell’esistenza assumono ruoli attraverso cui si esprime la Psiche collettiva. Vero o falso poco importa. Perché l’idea che una persona speciale (musicista, scrittore, poeta, pittore) possa restituirci “parti” nostre, perse, dimenticate o non ancora scoperte e riconosciute fino a quell’istante, è sicuramente un vero prodigio. Come tale difficile da credere. Eppure talvolta, davanti a un brano musicale, una poesia, un libro o un quadro, ci succede proprio questo. Ci afferra quella che James Hillman chiama “l’istantanea comprensione”, quella reazione intuitiva che ci fa trattenere il respiro, rimanere attoniti eppure armoniosamente co-partecipi, quasi inseriti nell’opera. Il pensiero mitico attribuisce questa forza a una forma di potenza extra-ordinaria contenuta nella cosa stessa. Nel brano musicale, nella poesia, nel quadro. Una potenza che non può che derivare da ciò che già in parte o completamente ci è noto.
Significa forse che nel quadro (o nell’opera in genere) è riprodotto qualcosa già appartenente a noi tutti? Più o meno profondamente sedimentato nel ricordo, nella dimenticanza, nella distrazione? Intendiamo quindi credere all’esistenza di quello che Jung definiva l’inconscio collettivo? Credo di si. Riconoscere in un quadro ciò che vi è raffigurato è relativamente facile, la Mente “legge”, è soddisfatta e si placa, può lasciare spazio al cuore, al sentimento, al giudizio intellettuale, emotivo, artistico. Se invece è l’intuizione a riconoscere (io quella cosa/segno/colore/movimento la conosco, certo che la conosco… ma non so cos’è, dove l’avrò vista, forse l’aveva già fatta qualcuno…ma chi?) ecco allora che la mente “risentita” si arrovella, si contorce e si scalda ma non decodifica. Non ci riesce proprio. Perché il canale di comunicazione aperto è un altro, quello dell’anima. C’è chi lo rifiuta a priori. Chi si lascia trasportare senza porre domande. Chi invece studia e vuole scoprire la radice. Mettere a fuoco. Provare a capire. Comunque sia il seme è gettato. Sia esso culturale, intellettuale, emotivo o spirituale il seme ha trovato un suo piccolo posto nella vita di ognuno di noi. Se è l’anima a cogliere siamo certi che non conosce mediocrità, né può confondere. Al limite chiede sostegno: dove ho già visto/sentito/letto, dove ho già sperimentato questo che vedo? L’anima, soprattutto, è sempre in viaggio, (e da sempre) non grida, non si lamenta, non muore mai. E’ qualcosa di profondamente vitale, ama il bello e prende ciò che di meglio esiste nella vita. Tutto senza fatica e in punta di piedi.

E’ in punta di piedi vanno anche le opere di Luciano Bartolini. Ma la grazia, la delicatezza, la raffinatezza dei suoi lavori non traggano in inganno. Queste rappresentazioni del mondo hanno la forza titanica del mito e l’espressione sintetica del simbolo. Ombre, memorie, fantasmi. Reti sottili che recuperano i frammenti e le schegge di un passato di tutti, caduto e sprofondato nell’oblio. Sto cercando di dire che le opere di Luciano Bartolini non sfuggono all’immediata riconoscibile cifra dell’appartenenza. Non hanno alcun elemento dissonante, alcuno stridore, sono armonie così naturalmente credibili da sembrare presenti da sempre.
Le abbiamo viste di sfuggita sulle cupole dei templi indiani? Ombre mangiate dal tramonto del sole. Sono i colori di un mosaico turco, o gli alberi di una foresta tedesca? Le vesti di un monaco d’oriente o quelle di un vescovo occidentale. I cerchi dei guerrieri indiani o i suoni delle campane del Tibet. Abbiamo già visto tutto e non sappiamo dove. Certo è che vorremmo sapere di più. Qual è la storia delle linee medianiche, dei soli d’oro, dei triangoli o dei boomerang (i Klang, per complicare le cose un po’). Da quale leggenda o sogno riaffiorano? Eppure lo sappiamo bene, a volte sono comparsi anche sulla nostra strada.
Anche noi li abbiamo incontrati. In penombra, alle prime luci dell’alba, di notte. Nei nostri viaggi, tra gli abiti che indossiamo, nei sogni. Lui, Bartolini, è riuscito a fermarli, a raccoglierli e a “coltivarli”. Non per sommare conoscenza a conoscenza (non credo sia un artista calcolatore e intellettuale) né per ricucire le proprie ferite, ma per catturare e appoggiare sulla carta verità ultime (o prime), uniche necessarie all’uomo per continuare il suo percorso estetico e spirituale.
Anche la scelta del supporto cartaceo ha un legame stretto con la rarefazione onirica, con l’impalpabilità preziosa dell’inconscio che affiora e nello stesso attimo svanisce. Ma anche con la bellezza nel senso più materiale e concreto. Con il gusto raffinato che ama circondarsi di cose piacevoli, evocanti e, si direbbe oggi, “fusion”. Corrispondenti a ciò che ognuno di noi ha metabolizzato del mondo. Un misto di razza, cultura, religione, tradizioni e dei. Sensibilità e conoscenze. Non espressione di un luogo geografico ma sintesi delle possibilità di ogni luogo e delle esperienze di ciascuno. E Luciano Bartolini era immerso in questa molteplicità senza farne una bandiera e anticipando una moda. Lo si comprende meglio leggendo i suoi scritti o ascoltando i suoni a lui più cari. Guardando le immagini che lo ritraggono durante i viaggi, osservando e “ascoltando” le sue opere.
Non stupisce sapere che la musica lo accompagnava sia nell’ideazione (melodie impegnate e il più delle volte orientali, la citatissima egiziana Oum Koulsoun ad esempio) che nella realizzazione dei lavori.
Il suono non è trattato come sottofondo, piuttosto come parte fondamentale, con grande influenza nella disposizione e collocazione delle leggere veline, delle lamine dorate, delle preziose carte Fabriano.

Bartolini aprì la sua porta personale verso l’Oriente (geografico e interiore) ancora giovanissimo.
E probabilmente il suo inizio può considerarsi quasi una premonizione , la chiosa del percorso artistico e umano. Le opere fragilissime e quasi impalpabili costruite con fogli di carta trasparente e Kleenex (alcune delle quali datate 1974-75 chiamate proprio Kleenex) sono sì il ricordo dei fogli-preghiera nepalesi, degli aquiloni o delle vesti sottilissime utilizzate in quei paesi ma potrebbero benissimo rappresentare la caducità dell’esistere o la precarietà del vivere. Un esorcismo continuo nei confronti della morte necessario a chi si sente chiamato a confrontarsi continuamente con i simboli del mondo. E man mano che Bartolini si addentra nel suo viaggio interiore riporta alla luce reperti nuovi. Immagini feticcio, totem, schegge solo in apparenza insignificanti. Si compone poco alla volta l’immagine della figura mitologica che occupa lo spazio e si impone come altro da sé. Siamo alla fine degli anni settanta, quando Bartolini deve combattere contro il Minotauro, e per farlo non può che calarsi nel labirinto e perdersi in esso (Perciò nelle strade della notte perdurano gli ori della tua ombra (1980), alla Biennale di Venezia). Le tracce del passaggio dal buio alla luce (dal basso in alto; dal maschile al femminile) sono invece le lettere (1981-82). Prima come lettere, poi come suono, poi come sensazione sottilissima. Ecco ancora l’artista “uscire”, compaiono i simboli dei monasteri ortodossi e del sol levante giapponese e si arriva al periodo Berlinese. Da qui fino alla sua morte prematura l’artista sembra produrre a contatto diretto con la luce. Partono dal 1986 le Kosmiscke Visionen, la chiara prova che attraverso l’arte l’uomo sta regalando all’uomo immagini primarie, ampie, solari, di unità. Le opere di questo periodo abbracciano il cosmo e ne sposano i simboli. Linee medianiche, cerchi e sfere solari, alberi della vita, possibili rappresentazioni dell’universo. Uomini-albero e uomini-fiore. Come per sottolineare l’indivisibile maschile e femminile, la verticalità e l’orizzonte, l’oriente e l’occidente, che si riposa e vive dentro ogni essere umano. Ecco allora che ritornano quei leggerissimi fogli che componevano i kleenex che si stratificano e compattano negli Emblematische Blumen. Tutta la breve vita materiale sembra concretizzarsi nelle piccole rugosità degli ori, nel vissuto dei rossi e dei gialli e nel bianco raggelante che tutto uniforma in un continuo processo circolare che non prevede mai nello stesso tempo è intriso di vita e di morte.