Lucio Fontana, (Rosario de Santa Fè, 1899 – Varese, 1968). Il padre Luigi era uno scultore, la madre Lucia Bottino un’attrice teatrale. A soli sette anni Fontana lascia l’Argentina e viene affidato a uno zio per studiare in Italia. Si iscrive alla Scuola di Edilizia a Milano, ma nel ‘16 interrompe per arruolarsi come volontario, diventa sottotenente di fanteria e rientra dal fronte nel ’19, con una medaglia d’argento, ferito sul Carso. Riprende quindi a studiare, si diploma e poi prosegue iscrivendosi nel ’27 al corso di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Brera. È uno degli allievi prediletti di Adolfo Wildt. Lo stesso Wildt che nel 1930 è membro della commissione della XVII Biennale di Venezia, la prima a cui partecipa Fontana.
Durante gli anni Trenta studia e prosegue la sua ricerca tra due città, Milano e Parigi, è in questo periodo in cui l’artista comincia a differenziarsi dal Maestro Wildt. Questo passaggio è visibile nell’opera scultorea Uomo Nero, esposta alla galleria il Milione nel ’30. La statua viene descritta come un “pensatore primitivo” ricoperto da una colata di catrame nero, graffiata. Si tratta di un manufatto di profonda rottura con il Novecento, quasi “il primo segno della liberazione” dell’artista, come lo definì Edoardo Persico. A Uomo Nero seguiranno la serie degli ori: Signorina seduta 1934 – Il Fiocinatore 1933-34 – Ritratto di Teresita 1939, dove a tratti ritornano gli echi wildtiani.
Sarà nelle successive tavolette, con l’utilizzo del gesso sommato al graffio, astrazione della materia da un lato, automatismo surrealista dall’altro, che Fontana dimostra il proprio modo del tutto personale di leggere entrambi.
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A questo serve studiare, non a ripetere ma ad andare oltre, e il genio sposta avanti di un pezzetto la nostra esperienza umana e in questo caso, artistica.
Per fortuna Fontana decide di insegnare, nel ’41 torna in Argentina e diventa docente di arti plastiche all’Accademia di Buenos Aires, nel ’46 organizza l’Altamira, Escuela libre de artes plàsticas, con Jorge Rornero Brest e Jorge Larco, importante centro di diffusione culturale. Dal contatto con giovani artisti e intellettuali e dalle nuove idee di ricerca che respira, nasce in novembre il Manifiesto Blanco, pubblicato in forma di volantino e redatto da Bernardo Arias, Horacio Cazenueve, Marcos Fridman, firmato anche da Pablo Arias, Rodolfo Burgos, Enrique Benito, César Bernal, Luis Coli, Alfredo Hansen e Jorge (Amelio) Rocamonte. Si tratta di un testo che esprime la volontà di andare oltre l’arte contemporanea e la materia, superando la finitezza dei mezzi espressivi correnti.
Sempre nel ‘46, in un gruppo di suoi disegni, compare il termine “Concetto Spaziale”, questo titolo è un mondo, la sua straordinaria visione. È l’invito, del tutto personale dell’artista a guardare oltre, sia in senso simbolico che in senso fisico, e accompagnerà gran parte di tutta la sua produzione. Il 22 marzo del 1947 Fontana torna in Italia, a Milano, dove entra in contatto con un gruppo di giovani artisti e, dopo incontri e discussioni, scrive e firma il primo Manifesto dello Spazialismo con il critico Giorgio Kaisserlian, il filosofo Beniamino Joppolo e la scrittrice Milena Milani. Da qui in avanti la storia artistica di Lucio Fontana è disseminata di capolavori, intuizioni, idee, sovvertimenti di punti di vista.
Diamo conto, in questa sede, solo dei passaggi principali della vita densa e impegnata di Lucio Fontana. Alla fine del 1958 prendono forma i “Tagli”, che vengono esposti alla personale della Galleria del Naviglio nel febbraio 1959 e appena dopo alla Galleria Stadler di Parigi nel marzo ’59. Nello stesso anno a Documenta, Kassel, alla V Biennale di San Paolo del Brasile, alla retrospettiva organizzata da Crispolti alla galleria L’Attico di Roma, e nel ’60 a Dusseldorf alla Galerie Schmela e a Londra alla personale presso Mc Roberts & Tunnard.
All’inizio degli anni Sessanta produce la serie degli Olii, dove le tele sono bucate o lacerate, con opere dedicate a una rievocazione della città di Venezia, partecipa alla sua prima mostra personale statunitense nel ’61, alla Martha Jackson Gallery di New York. Poi arrivano i Metalli, lamiere specchianti su cui interviene squarciando e tagliando la superficie.
Come ricorda la Fondazione Fontana, sita di fronte alla nostra galleria, in Corso Monforte 23 a Milano, nello stesso cortile in cui ha lavorato l’artista fino al 1968: “alla sua inarrestabile vena inventiva corrispondono le molteplici mostre a lui dedicate: a Milano, Venezia, Tokyo, Londra, Bruxelles. Sul fronte del rinnovamento iconografico, sono testimonianze significative la serie delle “Fine di Dio” (1963-1964), tutte tele di forma ovale, monocrome o talvolta cosparse di lustrini, attraversate da buchi e lacerazioni, esposte prima alla Galleria dell’Ariete a Milano e in seguito alla galleria Iris Clert di Parigi”.
Negli anni successivi, solo per voler ricordare le più importanti produzioni dell’artista, arriva la serie dei “Teatrini” (1964-1966) e il successo mondiale. Sue mostre personali al Walker Art Center di Minneapolis, alla Marlborough Gallery di New York e alla Galerie Alexander Iolas di Parigi.
Alla XXXIII Biennale di Venezia, crea con Carlo Scarpa l’ambiente ovale labirintico, opera che vince il premio della Biennale stessa.
Del 1967 è la serie delle “Ellissi”: tavole ellittiche di legno laccato colorate, attraversate da buchi eseguiti a macchina.